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LU SANAPURCIELLE

“puzza fa du quintale”

 Le macerie delle case distrutte dalla follia umana offrivano ottimi nascondigli a noi bambini; conoscevamo alla perfezione ogni pietra, avvallamento, muretto, trabocchetto.

Qualcuno di noi è stato fin troppo curioso da raccogliere le perfide penne- bomba, munizioni inesplose, spolette abbandonate… cedendo dolorosamente, a questi oggetti d’odio, il proprio tributo permanente; ma questa è un’altra storia.

Sapevamo che la luna piena del mese di marzo preannunciava l’arrivo de lu sanapurcielle: cerusico, stregone, filosofo; alto, lugubre con addosso, indelebile, un odore di muschio, tabacco, vino, sudore.

Tutto ciò che possedeva lo portava con sé in un grande zaino militare dentro cui, sicuramente, conservava tracce di ricordi, di amori,patimenti.

Arrivava e scompariva, sfuggendo sempre al nostro costante presidio del territorio; non riuscivamo a capire da dove entrasse ed uscisse dal paese.

Noi sapevamo, oltre ogni certezza, che era amico dei “mazz’marielli”, spiritelli nevrotici ed invidiosi (a tutti invisibili ma non a noi bambini), abitanti delle grotte che circondavano e circondano il paese.

Era con il loro aiuto che appariva e scompariva e che poteva esercitare con fierezza la sua arte: castrare.

Seguivamo, anzi inseguivamo il banditore (ma anche messo comunale, guardiano del cimitero, spazzino, pensatore e, all’occorrenza, ‘mmasciatore) nei suoi giri di avviso.

Ricordo che aveva tante coppole di diversi colori; le cambiava in funzione del ruolo che ricopriva e noi sapevamo, in qualsiasi momento, quale delle tante incombenze stava assolvendo.

In mano il piccolo corno d’ottone riprodotto, in latta, anche sulla visiera della coppola d’ordinanza; l’offesa più grande era toccargliela!!!

Quando sudava se la toglieva; asciugava, con un fazzoletto a quadri rossi e gialli, prima il bordo interno della coppola e quindi la fronte; si rimirava in uno specchio immaginario e se la infilava, con cura e lentamente, sul cranio pelato, come se avesse ancora un grande cespuglio di capelli.

Prima il davanti, poi incalcava il bordo posteriore e quindi rialzava la visiera con decisione, continuando a carezzare le tempie affinché nemmeno un capello restasse fuori posto: era convinto di averne, di capelli.

Girava per le viuzze del paese e le misere contrade, annunciando con un monotòno: peperepeeee è arrivate… pausa… lu sanapurcielle…pausa… sta alla funtana…pausa, pausa lunga… zinarrivà massera…pausa…’nche lu scure, peperepeeee…

< Mo ‘i zi ni esce l’anime!!! > biascicavano i vecchi seduti avanti gli usci delle case, sbuffando fumo e saliva dalle lunghe e casalinghe pipe di canna e braciere in terracotta rossa.

Le donne nella cui casa regnava la fortuna di avere un maiale, rabbrividivano al pensiero dell’operazione, necessaria a farlo ingrassare maggiormente ed ottenere una carne più tenera e saporita; il maiale doveva essere “sanato”.

Lu sanapurcielle aveva pochi ma funzionali attrezzi per castrare i maschi di maiale con facilità; con qualche difficoltà le ovaie (interne) delle maiale.

Affilava i suoi attrezzi, sconosciuti a tutti e che nessuno osava guardare; li sfregava con maestrìa e abilità, l’un contro l’altro, producendo un suono, scffffsss scffffsss, che preannunciava dolore e sangue; li maneggiava come un giocoliere, ne controllava il filo in controluce, li adattava alle sue enormi mani e velocemente tagliava l’aria come un esperto spadaccino; di nuovo scffffsss scffffsss finché la sua arte ne valutava la perfezione.

Con precisione e “professionalità”, nell’assoluto silenzio delle astanti (anche l’acqua della fontana faceva meno rumore nella caduta dentro gli abbeveratoi), iniziava il suo lavoro mentre le proprietarie (solo le donne assistevano a queste operazioni) giravano la testa per non vedere.

Le femmine di maiale subivano l’amputazione più dolorosa; il bisturi entrava nella carne alla ricerca delle ovaie, velocemente e con decisione asportate; le donne presenti inalavano aria, senza espellerla, sino alla fine dell’operazione; il sangue e le urla della maiala coprivano le loro mute preghiere: “sentivano” il coltello entrare nelle loro carni.

Eventuali ritardi nell’individuazione ed asportazione delle ovaie, dopo aver infilato l’attrezzo nella carne, avrebbero causato la morte della povera bestia, le cui urla strazianti lasciavano del tutto indifferente lu sanapurcielle.

Infine spalmava d’olio d’oliva la ferita per disinfettarla o forse celebrava un rito esoterico che nessuno capiva; prendeva il maiale per la coda, l’alzava e finalmente parlava, con voce cavernosa: puzza fa du’ quintale!!! (ti auguro di pesare due quintali).

Noi bambini, timorosi di questo forestiero così rispettato da tutti e amico delle forze delle caverne, ci nascondevamo dietro le macerie, nostro territorio di giochi e assistevamo, bocca, occhi ed orecchie spalancati, a questo orrendo spettacolo, che cercavamo di dimenticare girovagando per le campagne alla ricerca di melucce, perucci e fichere pizzent’ rimasti sugli alberi, intirizziti come noi dal freddo e dalle urla dei porci che, per ore, ci rintronavano dentro.

Questo è uno dei tanti mestieri del passato, che nessuno pratica più; il maiale oggi deve essere magro, senza un filo di grasso, ben nutrito, curato; praticamente un porco allegro. 

Mimmo Galluppi 

 28/01/2009

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